Carlo Levi nacque a Torino il 29 novembre 1902, da Ercole Levi e Annetta Treves. Apparteneva ad una famiglia ebrea, molto in vista a Torino. Da parte della madre, era nipote di Claudio Treves, socialista.
La sua formazione, perciò, può dirsi filtrata attraverso l’ebraismo e il socialismo e, quindi, naturalmente portata a sentire il problema dell’uomo, della fratellanza e della solidarietà internazionale. Questa vicinanza all’uomo e ai suoi bisogni, unitamente ad una profonda “pietas” o “compassione”, nel senso etimologico del termine, sarà la sua “lucanità”.
Lucania, infatti, sarà per lui sinonimo di umanità in assoluto, oltre il tempo e lo spazio. Non per nulla soleva dire che la Lucania, matrice originaria e anima mundi, è in ognuno di noi. Compito dell’intellettuale e dell’uomo giusto, calato nella storia, per l’appunto, rimane quello di liberare l’uomo autentico, cioè, secondo una metafora a lui 1cara, il “contadino” e la “Lucania” immanenti in ognuno di noi e troppo spesso vilipesi e calpestati.
Non poco, tuttavia, su di lui, almeno per quanto riguarda i suoi atteggiamenti concreti, dovette agire il clima politico, civile e culturale in cui era immersa Torino, che, in quegli anni, raccogliendo le istanze illuministiche che erano state di Alfieri e Baretti, rivivendo l’anima risorgimentale e ottocentesca di D’Azeglio e Cavour, aderiva ormai a tutta la problematica operaia e socialista dei primi del Novecento.
E fu la città più antifascista d’Italia, in cui poterono affermarsi l’egemonia intellettuale di Antonio Gramsci, attraverso la rivista “Ordine nuovo” (1919-20), e l’egemonia intellettuale di Piero Gobetti, attraverso le riviste “Energie nuove” (1918-20), la “Rivoluzione liberale” (1922-25) e il “Baretti” (1924).
Intorno a questi due “campioni” della cultura torinese, legati peraltro da sentimenti di stima e di amicizia reciproca, emergevano complesse e forti personalità quali Carlo e Nello Rosselli, Angelo Tasca e Palmiro Togliatti, Augusto Monti e Giulio Einaudi, Riccardo Bauer e Nicola Chiaromonte, Natalino Sapegno e Cesare Pavese, Riccardo Foa e Leone Ginzburg…
Non è meraviglia, perciò, che, stante questo contesto politico e culturale, proprio su Torino si concentrò l’attenzione repressiva del fascismo.
Già all’indomani della marcia su Roma, in data 18 dicembre, c’era stato l’eccidio di Brandimarte, con undici morti e la devastazione della Camera del Lavoro e del Circolo dei ferrovieri. Piero Gobetti, nel settembre del 1924, fu oggetto di aggressione da parte di squadracce fasciste. Sarebbe morto a soli 25 anni, a Parigi, nel febbraio del 1926, a seguito delle percosse subite. I fratelli Rosselli, costretti a rifugiarsi anch’essi a Parigi, furono lì ammazzati nel 1937.
Di Piero Gobetti Carlo Levi fu amico e, affascinato dalla acutezza della sua intelligenza, quasi allievo, pur essendo suo coetaneo. Era anche lui attentamente sorvegliato.
A condannarlo, agli occhi della polizia fascista, oltre che l’amicizia con Gobetti, erano i primi scritti di giornalista e saggista. Sospetta era anche la sua adesione al gruppo dei “Sei pittori di Torino”, composto da Jessie Boswell, Gigi Chessa, Francesco Menzio, Nicola Galante, Enrico Paolucci e, appunto, Carlo Levi, uniti contro la retorica della pittura dominante e proiettati verso una pittura nuova e di respiro europeo.
Nel 1922, su “Rivoluzione liberale”, Carlo Levi aveva pubblicato l’articolo Antonio Salandra, in cui accusava lo statista, ricco agrario pugliese, di “illiberale liberalismo”. Nel 1923, per la prima volta, aveva esposto un suo quadro. Accadeva alla Quadriennale torinese. Sempre su “Rivoluzione liberale”, pubblicava gli articoli Pensiero fascista e Il Congresso dei Popolari, di cui condannava la tiepidezza nei confronti del fascismo.
Nel 1924, all’età di soli ventidue anni, si laureava in medicina e, per quattro anni, fino al 1928, fu assistente del prof. Micheli, presso la Clinica medica dell’Università di Torino. Ma alla medicina e ad una sicura carriera universitaria preferì l’attività di pittore e di scrittore.
Nel 1924 partecipava alla XIV Biennale di Venezia. Pubblicava, nello stesso 1924, su “Rivoluzione liberale”, gli articoli Il cappone ripieno, I torinesi di Carlo Felice e L’impresario, l’asino e la scimmia.
Intanto, per interessi artistici, faceva frequenti viaggi a Parigi, dove, in Rue de la Convention, apriva uno studio. Gli spostamenti tra Torino e Parigi gli servivano per mantenere i contatti tra gli antifascisti torinesi e i profughi in Francia. Nel 1925-26, chiamato a svolgere il servizio militare, rivestì il grado di sottotenente medico. Nel 1926, sul “Baretti”, a testimoniare la sua costante attenzione per i problemi socio-culturali e artistici, pubblicava l’articolo Soffici a Venezia e partecipava alla XV Biennale di Venezia. Nel 1928, sulla “Cultura”, pubblicava l’articolo Ariosto; nel 1929, con Nello Rosselli e Riccardo Bauer dava vita a “Lotta politica” e, con il gruppo dei “Sei pittori di Torino”, partecipava alle mostre di Torino, Genova e Milano.
Con lo stesso gruppo, nel 1930, prendeva parte ad un’altra mostra torinese, nella sala d’Arte “Guglielmi”. Nello stesso anno, quindi, era presente alla XVII edizione della Biennale di Venezia. Sarà anche presente alla XVIII edizione del 1932, dopo aver esposto, tra il 1930 e il 1932, a Buenos Aires, a Roma e a Parigi.
Intanto, nello stesso periodo, partecipava alla stesura del Programma rivoluzionario di “Giustizia e Libertà”, insieme con i fratelli Rosselli, Lussu, Tarchiani, Salvemini e Nitti. Sui “Quaderni di Giustizia e Libertà” pubblicava l’interessante saggio sul Concetto di autonomia nel programma di “Giustizia e Libertà”. Nel 1933, a Parigi, partecipava ai funerali dello zio Claudio Treves.
Ormai conosciuto come antifascista, il 13 marzo 1934 veniva arrestato ad Alassio, ove la famiglia Levi possedeva una casa; ma veniva rilasciato il 9 maggio dello stesso anno, anche a seguito di un appello di alcuni artisti residenti a Parigi.
Imperterrito, però, il 16 novembre dello stesso anno, sempre su “Giustizia e Libertà”, pubblicava l’articolo Leone Ginzburg. L’anno successivo, il 15 maggio del 1935, veniva arrestato una seconda volta, chiuso nelle carceri di Torino e, poi, in “Regina Coeli”, a Roma, donde, il 3 agosto successivo, veniva trasferito, per il confino, a Grassano, in Lucania Basilicata.
Il giorno 18 settembre 1935 passava ad Aliano, sempre in Lucania Basilicata, anche se, non molti giorni dopo, il 29 ottobre, gli veniva consentito di tornare per breve tempo a Grassano, affinché vi potesse terminare alcuni quadri rimasti incompleti al momento del trasferimento. Ad Aliano rimaneva fino al 26 maggio 1936, essendo stato amnistiato in data 20 maggio, a seguito della proclamazione dell’Impero.
Tra il 1936 e il 1939 si intensificava la sua attività di pittore, che lo vedeva presente in diverse mostre, tra Milano, Genova e Roma. Nel 1939, sentendosi attentamente sorvegliato dalla polizia fascista, decideva di emigrare in Francia e raggiungere Parigi.
Qui, nel 1939, scriveva il saggio Paura della libertà, pubblicato successivamente, nel 1946, in cui raccoglieva la sua filosofia della vita, della storia, della politica e dell’arte. Alla paura della libertà attribuiva, insieme con la crisi della civiltà, il fenomeno del totalitarismo in Europa.
“La paura della libertà – scriveva – è il sentimento che ha generato il fascismo. Per chi ha l’animo di un servo, la sola pace, la sola felicità è nell’avere un padrone; e nulla è più faticoso, e veramente spaventoso, che l’esercizio della libertà”.
Tornato in Italia nel 1941, aderiva al Partito d’Azione. Nel 1942, scriveva il saggio Paura della pittura, in cui erano contenute le idee fondamentali riguardanti il ruolo della pittura nel mondo contemporaneo, tanto segnato da contraddizioni e angosce. Intanto, in piena coerenza con le idee professate, partecipava alla lotta di Liberazione. Veniva arrestato nella primavera del 1943, a Firenze. Liberato il 26 luglio successivo, tra il 1943 e il 1945 era tra i protagonisti del Partito d’Azione e componente della direzione della “Nazione del Popolo”, organo del Comitato toscano di Liberazione.
Tra il dicembre del 1943 e il luglio del 1944, a Firenze, ricercato dai nazi-fascisti, “chiuso in una stanza”, scriveva, servendosi di appunti, il suo capolavoro, Cristo si è fermato a Eboli, una sorta di diario del suo confino ad Aliano, indicato con il nome di Gagliano.
Pubblicato nel 1945, il libro ebbe straordinario successo, mai venuto meno. Esso fu la rivelazione di un mondo sostanzialmente sconosciuto e servì a riproporre, in termini drammatici, quella questione meridionale che il fascismo aveva voluto ignorare e occultare.
Nello stesso 1945, Levi si trasferiva a Roma, per dirigere “L’Italia libera”. Dava notevole contributo al trionfo della Repubblica, in occasione del referendum.
Passata la guerra, nella nuova Italia repubblicana, più intensa divenne la sua attività di pittore e scrittore, sempre presente nelle problematiche politiche e civili della nazione. Dopo aver partecipato a numerose mostre tra Torino, Roma e Firenze, pubblicava, sulla spinta del successo di Cristo si è fermato a Eboli, L’Orologio (1950), una sorta di pessimistica rivisitazione della Resistenza e delle aspirazioni della nuova Italia, a suo parere soffocate e vanificate dal centralismo del nuovo Stato e, soprattutto, dal burocratismo e dalla partitocrazia trionfante.
Ma gli esiti di pubblico e di critica furono molto diversi. Il libro passò quasi ignorato, anche se esaltato nella cerchia degli amici e dei più stretti estimatori.
Tra il 1950 e il 1955, partecipava a numerose altre mostre, distribuite tra Roma e Venezia (XXVII edizione della Biennale). Nel 1952, su invito dell’italo-americano Max Ascoli e per il settimanale “The reporter”, scrisse un preoccupato saggio sul rinascente neofascismo italiano. Lo scritto rimase inedito. Ritrovato presso l’archivio dell’Università di Boston da Sandro Gerbi, fu da questo pubblicato con il titolo: La serpe in seno. Il neofascismo (“Belfagor”, LI, n. 1, 31 gennaio 1996, pp.23-41). Faceva anche frequenti viaggi nel Mezzogiorno, tra Lucania, Calabria e Sicilia. Importantissimo, in quel periodo, fu il sodalizio con Rocco Scotellaro, il poeta di Tricarico, in provincia di Matera (1923-53), morto prematuramente, a soli trent’anni, che, interprete della “libertà o rivoluzione contadina”, era spesso assimilato a Piero Gobetti e alla sua “rivoluzione liberale”.
Nel 1955, frutto di tre viaggi in Sicilia, usciva il volume Le parole sono pietre. Momento centrale del libro era l’uccisione del sindacalista Salvatore Carnevale, assunto a simbolo del risveglio del Mezzogiorno e, in un certo senso, continuatore dell’opera di Rocco Scotellaro.
L’anno successivo, nel 1956, veniva pubblicato Il futuro ha un cuore antico, resoconto di un viaggio nella Russia socialista, proposta come modello di un mondo nuovo, quello socialista appunto, in cui, finalmente, trionfava l’uomo, cioè l’antico (ovvero il contadino e la Lucania), pur senza che si rinnegasse il nuovo, cioè le conquiste della tecnica e della scienza. Il libro otteneva il premio Viareggio.
Seguiva La doppia notte dei tigli (1959), dedicato ad un viaggio in Germania, emblema di un mondo ancora tragicamente “diviso” tra capitalismo e socialismo, in cui a rimetterci erano l’uomo nella sua identità e la sua felicità. Agli eccessi della Germania occidentale (capitalista) e a quelli della Germania orientale (socialista) Carlo Levi contrapponeva l’ideale di una Germania unita, che facesse proprie l’istanza di libertà della Germania occidentale e l’istanza di giustizia propria della Germania orientale: quasi una terza via. Ad un viaggio in Italia era dedicato il libro Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’Italia (1960).
Nel 1964 usciva Tutto il miele è finito, dedicato a due viaggi in Sardegna, fatti a distanza di dieci anni l’uno dall’altro. Al ritorno, dieci anni dopo, Levi poteva verificare come non solo quegli anni trascorsi non avevano significato alcun progresso dell’isola rispetto al primo viaggio, ma, se era possibile, tutti i tentativi di modernizzazione avevano semplicemente violentato l’ordine costituito della civiltà contadina e pastorale della vecchia Sardegna, producendo, nello sconquasso determinatosi, la drammatica emorragia migratoria. Tutto il miele, insomma, era finito.
Pur tra tanta amarezza, tuttavia, Levi, in conformità col suo pensiero, non cessava di sperare in tempi nuovi, ben sapendo che la storia è fatta di corsi e di ricorsi o – come diceva – di passaggi dall’indeterminato al determinato, e viceversa.
Nel 1963, perciò, accettava di far parte delle liste elettorali del Pci, in nome di “una politica nuova che cerchi di… attuare la tendenza del popolo verso un mondo umano, di cui l’uomo sia la misura e il fine”. La cosa non sorprese nessuno, perché a tutti era nota la sua simpatia, più volte professata, per l’idea socialista, anche se era impossibile chiedere a Levi una tessera di partito. Il suo ingresso in lista, infatti, avvenne con la qualifica, allora ricorrente, di “indipendente di sinistra”.
Fu eletto senatore nel collegio di Civitavecchia. L’elezione venne rinnovata nel 1968, nel collegio di Velletri. Nel 1967, intanto, insieme con Paolo Cinanni, aveva fondato la Filef (Federazione Italiana Lavoratori Emigrati e Famiglie), con cui cominciava il suo impegno a favore degli emigrati, in gran parte meridionali.
Era il suo modo di stare, ancora una volta, dalla parte dei “contadini”. Né per questo si interrompeva o subiva ritardi la sua attività di pittore, che, anzi, meglio e più organicamente si collegava con i suoi orientamenti sociali e civili. Sue mostre venivano organizzate a Torino, Roma, Firenze, Mantova, Matera e Lorica.
Qualche rallentamento, invece, subiva la scrittura, forse perché richiedeva maggiore concentrazione e quiete.
Nel 1972 si presentava candidato per il Senato nel collegio di Roma e in Sicilia; ma non veniva rieletto. Ciò dovette amareggiarlo non poco. Amarezza ben più grave, tuttavia, gli venne, nel dicembre del 1972, dall’essere stato colpito dal distacco della retina oculare e costretto, quindi, a due interventi chirurgici. La sua attività artistica e letteraria, naturalmente, veniva decisamente compromessa. Nel 1974, sentendosi malato e stanco e, forse, prossimo alla fine, volle quasi fare un ulteriore bagno nel suo passato e tentare una forma di recupero del tempo perduto. Fu in Lucania Basilicata, per presentare la cartella delle sette litografie, ispirate al Cristo si è fermato a Eboli, che rimaneva il suo orgoglio maggiore. Non si sottrasse a fatiche di alcun genere, in quei giorni; ma poco dopo, il 4 gennaio del 1975, si spegneva in una clinica romana, per polmonite e successive complicazioni cardiocircolatorie.
Il 26 gennaio veniva sepolto ad Aliano, il paese del suo confino, nella cui realtà “fuori del tempo” si era specchiato, si era ritrovato e si era riconosciuto. Postumo, nel 1979, usciva il volume Quaderni a cancelli, che, scritto in poche settimane e in condizioni di quasi totale cecità, nulla aggiungeva al suo prestigio di scrittore e di intellettuale, che aveva accompagnato la storia d’Italia per oltre cinquant’anni, mai venendo meno a quella “morale della libertà”, che aveva appreso, nella lontana gioventù, da Gramsci e Gobetti.
(a cura di Giovanni Caserta, da G. CASERTA, Nuova introduzione a Carlo Levi, Venosa, Osanna, 1996)